Il nome della rosa

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Il nome della rosa

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« Il 16 agosto 1968 mi fu messo tra le mani un libro dovuto alla penna di tale abate Vallet, Le manuscript de Dom Adson de Melk, traduit en francais d'après l'édition de Dom J. Mabillon (Aux Presses de l'Abbaye de la Source, Paris, 1842) »
(Umberto Eco, Incipit de Il nome della Rosa, 1980)

È la fine di novembre del 1327. Guglielmo e Adso si recano in un monastero benedettino di regola cluniacense sperduto sui monti dell'Italia settentrionale (presumibilmente: l'Appennino ligure). Questo monastero sarà sede di un delicato convegno che vedrà protagonisti i francescani - sostenitori delle tesi pauperistiche e alleati dell'imperatore Ludovico - e i nemici della curia papale, insediata a quei tempi ad Avignone. I due monaci (Guglielmo è francescano e inquisitore "pentito", il suo discepolo Adso è un novizio benedettino) si stanno recando in questo luogo perché Guglielmo è stato incaricato dall'imperatore di partecipare al congresso quale sostenitore delle tesi pauperistiche. Allo stesso tempo l'abate, preoccupato che l'inspiegabile morte di un confratello durante una bufera di neve possa far saltare i lavori del convegno e far ricadere la colpa su di lui, confida nelle capacità inquisitorie di Guglielmo affinché faccia luce sul tragico omicidio, cui i monaci - tra l'altro - attribuiscono misteriose cause soprannaturali. Nel monastero circolano infatti numerose credenze circa la venuta dell'Anticristo.

Nonostante la quasi totale libertà di movimento concessa all'ex-inquisitore, altre morti violente si susseguono e sembrano tutte ruotare attorno alla biblioteca, vanto del monastero (costruita come un intricato labirinto a cui hanno accesso solo il bibliotecario e il suo aiutante) e ad un misterioso manoscritto greco. La situazione è complicata dall'arrivo dell'inquisitore Bernardo Gui e dalla scoperta di due eretici della setta dei dolciniani, profughi presso l'ordine dei benedettini (il cellario e il suo amico semianalfabeta): così, in un'atmosfera inquietante, alternando lunghe digressioni storico-filosofiche, ragionamenti investigatori e avvincenti scene d'azione, Guglielmo e Adso si avvicinano alla verità penetrando nel labirinto della biblioteca e scoprendo il luogo dove è custodito il manoscritto fatale (l'ultima copia rimasta del secondo libro della Poetica di Aristotele), che tratta della commedia e del riso. Alla fine, l'assassino (il vecchio Jorge) divora le pagine avvelenate del testo in modo che più nessuno possa leggerle. Nel tentativo di fermarlo, Guglielmo e Adso generano un incendio che nessuno riuscirà a fermare e che divorerà l’intera abbazia. Adso e il suo maestro partiranno infine da quelle macerie, in cui il giovane tornerà anni dopo, trovando la solitudine più totale, in quello stesso luogo che era stato teatro di omicidi e intrighi, veleni e scoperte.

Il punto centrale del romanzo sta nel fatto che se è possibile ridere di tutto - come affermato nella Poetica di Aristotele - è possibile ridere di Dio, contrapponendo al dogmatismo la ragione umana e portando al relativismo e alla caduta della religione (un tema classico dalla rivoluzione francese in poi). Il relativismo insegna che il bene e il male sono difficilmente riconducibili a verità assolute, in quanto troppo spesso celati in contesti apparentemente opposti. In altre parole, il bene si può nascondere anche in una realtà del tutto intesa al male e viceversa. Jorge, infatti, è lucidissimo nel suo proposito di salvare l'umanità dalla pericolosa riscoperta del libro di Aristotele ("possiamo ridere di Dio? Il mondo precipiterebbe nel caos"); egli ne intuisce il pericolo ed è lui a provocare la catena di omicidi per impedire la conoscenza del messaggio proibito. Ma proprio l'eccessivo amor di Dio e della sua verità lo porta a compiere un'opera diabolica.

In tema di citazioni e ammiccamenti più o meno nascosti (di cui il romanzo è disseminato dall'inizio alla fine) è abbastanza palese che tanto il nome di questo personaggio (Jorge da Burgos), quanto il trinomio cecità/biblioteca/labirinto a lui collegato, costituiscano un'allusione allo scrittore argentino Jorge Luis Borges.

Una curiosità legata al titolo del romanzo, è (parzialmente) svelata alla fine del libro, dove l'ormai vecchio narratore Adso da Melk conclude il suo racconto con un'espressione latina :"Stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus" (la rosa primigenia esiste in quanto nome, possediamo i semplici nomi). Si tratta di un messaggio che - come prima detto - porta a riflettere affinché non si presuma di essere depositari della verità, in quanto questa sarà sempre contestabile se non addirittura risibile. Ma vi traspare anche il senso che l'esperienza, dopo che è stata vissuta, può solo e deve venire raccontata.

« Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. »
(Umberto Eco, Il nome della rosa, Ultimo Folio, 1980)

da Wikipedia
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Bisogna avere in sè il caos per partorire una stella che danzi
(F. Nietzsche)


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